Al termine della Grande Guerra, la situazione europea era catastrofica, con intere aree da bonificare dagli effetti del conflitto, la disoccupazione dilagante a seguito del termine delle forniture per gli eserciti; l’indebitamento europeo alle stelle, generi alimentari scarsissimi; mutilati, invalidi, orfani e vedove in proporzioni enormi e senza assistenza; le promesse di guerra disattese sia per i vinti che per i vincitori, essendo impossibile per i governi mantenere quanto utilizzato per convincere a continuare a combattere.
Inoltre, la situazione politica europea era completamente cambiata, con interi imperi sgretolatisi. Con la fine dell’impero austro-ungarico, nacque il Regno di Serbi, Croati e Sloveni che, per accordi segreti con Francia e Gran Bretagna, si affrettarono ad occupare la Dalmazia che sarebbe dovuta essere italiana secondo gli accordi del Patto di Londra, arrivando anche allo scontro con la Regia Marina ed il Regio Esercito che già ne avevano preso il controllo, per ottemperare alle clausole dei Trattati.
In seno alla Conferenza di Parigi (che durò circa un anno, fino al gennaio 1920), i rappresentanti italiani Sidney Sonnino e Vittorio Emanuele Orlando non seppero difendere i diritti italiani, siglati dal Patto di Londra del 26 aprile 1915, giungendo a lasciare il tavolo delle trattative (19 aprile 1919) invece di opporsi alle ingerenze soprattutto statunitensi. Italia che era arrivata a concordare l’ingresso in guerra a fianco della Triplice Intesa proprio per garantirsi egemonia e controllo rispetto all’Adriatico orientale, quando altrimenti avrebbe potuto accettare la proposta della Triplice Alleanza e rimanere neutrale, ottenendo in cambio le stesse terre che stava per avere ora, dopo anni di sacrifici bellici.
Sarà il poeta e creatore di neologismi Gabriele D’Annunzio a sintetizzare il risultato con la locuzione “vittoria mutilata”: l’Italia aveva vinto sì, a Vittorio Veneto, piegando l’esercito asburgico nel 1918, ma era una vittoria che le aveva comportato la mancanza di un pezzo promesso, mutilata come tanti e tanti soldati italiani al ritorno dal fronte.
Attorno al Vate si riunirono nazionalisti, reduci, interventisti, irredentisti e buona parte dell’opinione pubblica italiana. Contrari all’annessione della Dalmazia, tuttavia, erano anche i militari italiani, tra i quali Armando Diaz, Capo di Stato Maggiore, ritenendo di difficile difesa un territorio così esterno in caso di guerra.
Guerra che sarebbe stata evitata, secondo il presidente americano Wilson, solo se a conclusione della conferenza parigina non ci fossero stati vincitori reali, ma tutti avessero perso qualcosa, a monito di non ripetere lo stesso errore.
In realtà, le scelte strategiche di Parigi non si rivelarono affatto congegnali sotto molto punti di vista. Vennero poste sul tavolo anche le minacce bolsceviche: l’Italia avrebbe potuto aderire al partito della rivoluzione senza l’ottenimento di quanto promesso in partenza, perché scontenta e in condizioni disastrose, sia socialmente che economicamente, uscita stremata dal conflitto. Ogni esponente di governo al tavolo delle trattative si preoccupava della propria opinione pubblica, ma di certo quella italiana non venne tenuta nella giusta considerazione, essendo Paese vincitore della guerra, così come l’Italia non venne ben rappresentata, lasciando in tutto campo libero agli altri contendenti di terre e acquisizioni.
La sorte di città italiane come Fiume e Zara preoccupava tutto il Paese, ma si arrivò comunque alla firma del Trattato di Saint-Germain, dato che gli alleati lasciarono che italiani e serbo-croato-sloveni definissero autonomamente i propri confini.
Il 10 settembre 1919, per l’Italia firmò il capo del governo Francesco Saverio Nitti e immediatamente scattò la reazione capeggiata da D’Annunzio che, il 12 settembre, occupò Fiume perché venisse annessa al Belpaese. Il principio di nazionalità non rispettava, secondo gli italiani, l’italianità di Fiume stessa. Gli albanesi, intanto, volevano sganciarsi dal protettorato italiano, mentre il Montenegro venne assegnato al Regno dei Serbi, Croati, Sloveni. Il neonato movimento politico fondato da Mussolini trovò terreno fertile per accusare i governi italiani di inefficienza e scarsa decisione, usando il problema politico della ripartizione territoriale a fini propagandistici.
L’occupazione militare della città di Fiume, prima di pertinenza ungherese ed ora in balia dei trattati di pace, da parte di D’Annunzio e i suoi seguaci, venne chiamata l’impresa di Fiume, o fiumana.
Il Poeta venne seguito da alcuni reparti del Regio Esercito, soprattutto fanti, artiglieri e bersaglieri, circa 2500 persone, detti legionari. L’occupazione durò quasi un anno e mezzo e vide anche la nascita della Reggenza italiana del Carnaro. Circa metà della popolazione cittadina era di nazionalità e lingua italiane e alla fine del conflitto si era già costituito un Consiglio nazionale che voleva l’annessione all’Italia, in realtà non prevista dal Patto di Londra, ma vigente in nome del diritto dei popoli all’autodeterminazione, come aveva insistito Wilson; all’Italia, infatti, era stata promessa la Dalmazia.
Volontari a difesa della città si erano organizzati già nell’aprile 1919, creando una Legione fiumana contro i francesi che erano filo iugoslavi. Infatti, in giugno ci furono degli scontri con i militari francesi che, in spregio, avevano strappato la coccarda italiana che le donne di Fiume si erano appuntate all’abito, generando quelli che vennero nominati i Vespri fiumani, con morti e feriti.
La conferenza di Parigi sciolse il Consiglio Nazionale Fiumano e chiese il ritiro dei soldati italiani, creduti colpevoli degli episodi, ingiustamente.
Una delegazione di fiumani incontrò D’Annunzio chiedendogli di assumere la reggenza della città, mentre i Granatieri di Sardegna vennero allontanati perché ritenuti troppi indisciplinati; questi si acquartierarono a Ronchi dei Legionari. Saranno loro, con a capo D’Annunzio e assieme ad altri volontari, a marciare su Fiume, che il Vate dichiarò annessa all’Italia, il 12 settembre 1919.
I soldati inglesi e francesi non intervennero per evitare lo scontro aperto, mentre i marinai della nave regia, ex incrociatore Marco Polo, che arrivò a Fiume il 22 settembre, si unirono ai legionari. Il governo italiano prese immediatamente le distanze dall’azione dannunziana, nominando commissario straordinario Pietro Badoglio che, da Trieste, minacciava di considerare disertori i militi in appoggio all’impresa, ma non ottenne alcun risultato, tanto che Francesco Saverio Nitti, capo del governo, ordinò l’assedio della città per lasciarla senza viveri.
Il 20 settembre venne pubblicata su “Il Popolo d’Italia”, il giornale diretto da Mussolini, la lettera che questi ricevette da D’Annunzio, in cui gli si rimproverava scarso impegno politico nella vicenda, motivo poi dei dissapori mai risolti tra i due. Infatti, sul giornale la lettera risultò mancante delle frasi più polemiche e ingiuriose contro il nuovo capo dei Fasci. Mussolini avviò una sottoscrizione pubblica che portò all’invio di varie trance di soldi a sostegno dell’impresa.
Il governo cercò, inutilmente, la soluzione diplomatica, mentre D’Annunzio continuava ad avere sempre più seguito. Si arrivò al plebiscito di annessione, ma anche a continue accese diatribe, fino allo stallo.

Il 12 agosto 1920, D’Annunzio annunciò la Reggenza Italiana del Carnaro: “Fondiamo in Fiume d’Italia, nella Marca Orientale d’Italia, lo Stato Libero del Carnaro”.
L’impresa di Fiume si innestava nella bufera sociale e politica italiana, nota come biennio rosso, tra tumulti, scioperi, occupazioni della fabbriche. Da Fiume c’era il rischio che seguissero l’esempio altre persone, intenzionate a fare cadere il governo, al quale, intanto, si erano alternati vari esponenti, tra una dimissione e l’altra, mentre Fiume si organizzava nella vita quotidiana, stampando francobolli e denaro.
La mitica impresa si concluderà nel giro di pochi mesi con il tragico “Natale di sangue”, strappando le speranze di molti e soddisfacendo le mire di altri.
Alessia Biasiolo